La fenomenologia
Una rilettura rivoluzionaria dell’ovvio
La fenomenologia è una disciplina fondata da Edmund Husserl tra Ottocento e Novecento, che rappresenta al tempo stesso un metodo di conoscenza ed un atteggiamento particolare, da seguire non solo nella vita professionale dello psicologo, ma anche nella vita quotidiana.
Mentre secondo le scienze naturali l’uomo è una cosa nel mondo, secondo la fenomenologia l’uomo è intenzionato al mondo. L’intenzionalità è il tema principale e il centro di tutta la fenomenologia. È la caratteristica fondamentale dell’esperienza, del vissuto, della coscienza, dell’atto conoscitivo: tutte le esperienze vissute sono intenzionali. È l’essenza della coscienza: la coscienza ha una struttura intenzionale.
L’intenzionalità nasce con lo spostamento dell’attenzione da uno dei due poli del rapporto tra soggetto e oggetto all’atto stesso del rapportarsi. È la correlazione essenziale e originaria tra soggettività e oggettività, esprime il rapporto tra soggetto e oggetto nel processo di conoscenza. È il rivolgersi costantemente a qualche cosa, è l’atto del “rapportarsi a”, del “tendere verso”, “dirigersi verso”. È apertura al mondo, è trascendenza.
L’intenzionalità mette in dubbio l’esistenza di una realtà esterna e indipendente dal soggetto: paradossalmente, è proprio l’ovvietà del rapporto con l’oggetto, la familiarità con l’oggetto, la confidenza col mondo, l’abitudine a frequentare il mondo, a farmi dubitare dell’esistenza dell’oggetto indipendentemente dal soggetto.
In altre parole, la scoperta dell’intenzionalità coincide con una lettura rivoluzionaria dell’ovvio. La realtà esterna e indipendente è qualcosa che viene data per scontata, ma che non deve essere data per scontata. Per me è ovvio che esista una realtà esterna, indipendente e preesistente. Nonostante ciò, se mi attengo all’esperienza effettiva, non posso garantire nessuna realtà che non sia vissuta da me. Non posso farlo perché non posso uscire da me stesso. Dunque quello che è ovvio non è più ovvio: non sono certo dell’esistenza di una realtà indipendente dal soggetto.
L’intenzionalità è lo strato anteriore alle distinzioni. Per essere più radicali, non ha senso dire che un soggetto si incontra con un oggetto. Nel vissuto non c’è da una parte il soggetto e dall’ altra l’oggetto. Non esiste una distinzione tra soggetto e oggetto: esiste già il rapporto.
L’oggetto è sempre, necessariamente in rapporto al soggetto, e, viceversa, il soggetto è sempre necessariamente in rapporto all’ oggetto. Ciò che esiste non è l’oggetto, ma l’intenzione, ovvero un soggetto che va verso l’oggetto.
Se qualcosa esiste, esiste in quanto presente nell’ intenzionalità, ovvero in rapporto al soggetto. Dunque esistere significa “essere-in-presenza-di-…” . Posso garantire l’esistenza di un oggetto solo se sono in sua presenza, se lo sto percependo, se sto compiendo un atto conoscitivo. L’intenzionalità mi consente di partire dalla coscienza per affermare l’esistenza di un oggetto.
Di conseguenza, la realtà coincide con l’esperienza: l’esperienza è alla base di ogni conoscenza, tutto ricade inevitabilmente nell’esperienza: non esiste mondo se non quello che sperimentiamo.
Ciò che effettivamente esperisco è il fenomeno. Il termine “fenomeno” non deve essere inteso in senso kantiano: non è la “cosa come appare”, che si contrappone alla “cosa in sé”. In senso fenomenologico, il fenomeno non lascia residui di realtà non conoscibile al soggetto: il fenomeno non è l’aspetto soggettivo di qualcosa che continua ad esistere da qualche altra parte. La realtà fenomenica comprende tutta la realtà esistente. Il fenomeno è la manifestazione della cosa, e non la cosa che si manifesta.
Il fenomeno è un oggetto intenzionale, un vissuto. È ciò che si dà inevitabilmente attraverso una prospettiva, un punto di vista, uno scorcio. Esprime un significato, un intenzione, un rapporto tra soggetto e oggetto.
L’esperienza più immediata del fenomeno è la percezione. La percezione avviene attraverso il corpo. Dunque la conoscenza è incarnata, radicata nel corpo (Varela, F. & Thompson Rosch, R. 1991). Il corpo mi permette l’azione e la realtà è data attraverso l’azione: la realtà non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo di momento in momento attraverso il corpo (Merleau-Ponty, 1945). Dunque io non ho un corpo, io sono sempre corpo (Biswanger, 1955). Io posso esistere solo come corpo, perché il corpo è sede delle azioni, e le azioni sono la realtà.
Il corpo è contingenza: per questo, non va alla ricerca di una verità preliminare, ma di fenomeni, ovvero piccole verità particolari e legate all’esperienza del momento (Cipolletta & Alfredetti, 2008).
Di conseguenza, ogni conoscenza è inevitabilmente prospettica, situata, contingente, contestuale: “il mondo è ciò che percepiamo” (Merleau-Ponty, 1945, p. 25) e gli eventi si danno inevitabilmente attraverso un punto di vista soggettivo, per “scorci ed adombramenti” (Husserl, 1912-29, p. 88). Dunque è impossibile accedere ad una realtà oggettiva, non esiste un osservatore assoluto: “un osservatore non ha alcuna base operazionale per emettere affermazioni e giudizi su oggetti, entità e relazioni, come se questi esistessero indipendentemente da ciò che egli fa” (Maturana, 1988, p. 30). L’esperienza è alla base di ogni conoscenza, tutto ricade inevitabilmente nell’esperienza: “non esiste mondo se non quello che sperimentiamo, non esiste nessun luogo nel quale uscire” per ottenere una visione oggettiva del mondo (Varela, 1988, p. 269).
In questo senso, anche la scienza procede all’interno dell’esperienza personale: “l’osservatore deve accettare esplicitamente che è un essere umano e che anche la conoscenza scientifica si situa tutta dentro il mondo dell’esperienza vivente e delle sue effettive condizioni relazionali” (Maturana, 1988, p. 29). La conoscenza scientifica è un’esperienza vissuta “in prima persona” (Armezzani, 2004, p.12) da un essere umano, è inevitabilmente imbevuta della soggettività dello scienziato: “lo scienziato non può operare se non come essere umano totale, senza alcuna separazione tra cognizione, emozione, atteggiamento e interessi” (p. 26)”. Per questo, la fenomenologia critica aspramente le scienze naturali che, nella pretesa di rivelare una realtà oggettiva, de-umanizzano il mondo (Husserl, 1936).
Dunque la fenomenologia è la scienza dell’esperienza: si interessa a come i fenomeni vengono esperiti in prima persona. La fenomenologia riconosce l’essere umano come un universo di significati da esplorare e valorizzare. L’individuo diviene l’esperto di ciò che racconta, il migliore conoscitore della propria storia, mentre il ricercatore ha intenzione di imparare dal partecipante, pende dalle sue labbra, ascolta impazientemente la sua narrazione, poichè sono le parole del partecipante a scrivere ed orientare la ricerca (Mannetti, 1998).
L’incontro e lo scambio intersoggettivo tra ricercatore e partecipante è possibile perché l’uno è simile all’altro, perché ciascuno porta già dentro di sé la soggettività dell’altro.
Infatti la soggettività ha un paradosso: l’individuo è al tempo stesso soggetto per il mondo e oggetto nel mondo, oppure, come direbbe Merleau-Ponty (1945), corpo vissuto e corpo oggetto. Per questo motivo, il soggetto vive un’ambiguità: egli è un’“appartenenza estranea”, una “trascendenza immanente”. La soggettività è un’ “alterità mia propria”. Quindi l’alterità è già in me: io sono anche altro a me stesso.
Per questo, io posso percepire l’altro come “estraneo analogo”: io posso riconoscere l’altro come una presenza analoga alla mia, perché ho già in me l’alterità, perché anche io in parte sono altro a me stesso.