La teoria della gestione del terrore

Ecco come la paura della morte può aumentare i pregiudizi sociali

La teoria della gestione del terrore è stata elaborata da Greenberg e collaboratori nel 1997 e rappresenta una spiegazione psicosociale dell’origine del pregiudizio. Essa ha la peculiarità di collegare un tema tipicamente psicosociale, come il pregiudizio, a un tema generalmente affrontato in ambito filosofico, come la morte.

La teoria della gestione del terrore afferma che l’individuo, di fronte alla salienza della propria mortalità, tende ad aggrapparsi alla propria visione culturale del mondo, poiché questa permette di trascendere la sua morte. Quindi, se un individuo è spinto a pensare alla propria morte, tende a discriminare e mostrare pregiudizi nei confronti di chi minaccia la visione culturale del mondo, e apprezzare chi invece la sostiene.

Vediamo nel dettaglio quali sono gli assunti su cui si basa la teoria della gestione del terrore.

L’essere umano, come gli animali, ha un desiderio di auto-preservazione: istintivamente mette in atto dei comportamenti che gli garantiscono la sopravvivenza, ovvero la possibilità di salvaguardare la propria vita evitando le situazioni di pericolo.
Il desiderio di auto-preservazione spinge l’individuo a provare ansia da annichilazione ogniqualvolta si trovi in pericolo di morte.

D’altro canto, l’essere umano si contraddistingue dagli altri animali perchè possiede specifiche abilità cognitive, come la posticipazione, la progettazione e la consapevolezza di sé, grazie a cui, oltre ad evitare automaticamente la morte, può anche ragionare su di essa, senza trovarsi necessariamente in una situazione di pericolo.
In questo modo, l’individuo prende in considerazione l’eventualità e l’inevitabilità della propria morte.

L’ansia da annichilazione, combinata alla consapevolezza della morte, scatena nell’ individuo il cosiddetto terrore potenziale, ovvero una forma di terrore che si sperimenta nel momento in cui si immagina la propria fine.

Le stesse abilità cognitive responsabili della consapevolezza della morte, possono essere sfruttate per gestire il terrore potenziale.
Precisamente, l’individuo, per gestire il terrore associato alla propria morte, si immerge in una visione condivisa del mondo e aderisce ai suoi standard valoriali.

La visione condivisa del mondo rappresenta un sistema di credenze filosofiche, religiose, scientifiche, politiche e sociali che vengono costruite all’interno di una cultura per dare ordine e significato alla realtà percepita e che vengono tramandate di generazione in generazione.
Queste costruzioni culturali si innalzano al di sopra della materialità della vita quotidiana, trascendono la vita dei singoli individui e quindi persistono anche dopo la loro morte.
Assumendo una visione del mondo condivisa, l’individuo cerca di guadagnarsi una condizione di immortalità, che può essere simbolica o letterale. È simbolica, nel caso in cui la visione culturale condivisa preveda ad esempio l’esistenza di un’anima immortale. È letterale, nel caso in cui ritenga che i propri valori non scompariranno al momento della morte, ma saranno tramandatì ai posteri o comunque resteranno condivisi da un certo numero di persone.
La solidità e la stabilità di una visione culturale del mondo dipende dalle validazioni e dai consensi che riceve: è rafforzata da chi la sostiene ed è indebolita da chi vi si oppone.
Dunque l’individuo è motivato a sostenere la propria visione del mondo condivisa e a difenderla da chi la può mettere in crisi.

L’adesione agli standard valoriali è strettamente connessa al concetto di autostima.
Da un lato l’adesione agli standard valoriali è fonte di autostima: l’autostima è un’immagine positiva di sé in quanto membro rappresentativo della propria cultura.

Dall’altro lato, l’autostima spinge l’individuo a valutare il gruppo culturale di appartenenza come migliore degli altri, e, di conseguenza, lo motiva ad aderire agli standard valoriali della propria visione condivisa.

A partire da queste considerazioni è possibile formulare due ipotesi.
La prima ipotesi sostiene che l’individuo, di fronte alla salienza della propria morte, tende ad aggrapparsi alla propria visione del mondo condivisa e a difenderla con forza, discriminando chi la minaccia e apprezzando chi invece la supporta.
La seconda ipotesi sostiene che l’individuo, di fronte alla salienza della propria morte, ha un forte bisogno di autostima e tende quindi a mantenerla o innalzarla.
Dunque, secondo la teoria della gestione del terrore, il pregiudizio nasce dal conflitto tra visioni culturali contrastanti, costruite e sostenute per cercare di negare il problema della morte.
In questo modo, paradossalmente, gli esseri umani, nel tentativo di rifuggire un male inevitabile come la morte, vanno incontro ad un male evitabile come il pregiudizio.

Greenberg e collaboratori hanno condotto diversi esperimenti con lo scopo di verificare se la salienza della morte attivi o meno la difesa della propria visione culturale del mondo.
In uno di questi esperimenti, sono stati coinvolti 22 giudici di una corte municipale. A tutti i giudici viene somministrato un test di personalità, ma solo a metà dei giudici viene anche chiesto di descrivere pensieri e sensazioni sulla propria morte. Attraverso questa manipolazione sperimentale, a metà dei giudici (gruppo sperimentale) è stata attivata la salienza della morte mentre all’altra metà dei giudici non è stata attivata la salienza della morte (gruppo di controllo).
Successivamente, a tutti i giudici viene presentato un caso: decidere l’importo della cauzione per una donna accusata di prostituzione.
I risultati evidenziano che nella condizione di controllo la cauzione ammontava a 50 dollari in media,
mentre nella condizione sperimentale l’importo della cauzione era di 450 dollari in media.
Si osserva dunque una differenza significativa tra le due condizioni: nel caso dei giudici in cui è stata attivata la salienza della morte, la cauzione aumenta considerevolmente.
Se i risultati vengono interpretati alla luce della teoria della gestione del terrore, possiamo affermare che i giudici spinti a pensare alla propria morte tendono ad attaccarsi maggiormente ai valori della società e di conseguenza giudicano più aspramente il reato di prostituzione.